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Appendice 1 - Riformisti inconciliabili

di Francesco Cuozzo

Nato ad Avellino il 17-9-1946, ha compiuto gli studi classici e si è laureato all’Università La Sapienza nel 1972 in giurisprudenza Giornalista parlamentare, inviato speciale, commentatore di questioni politiche ed economiche a Rai News 24 dall’aprile del 1999. Dal ’96 al ‘98 è al giornale Radio Rai con l’incarico di seguire la politica di Palazzo Chigi. Dal 1988 (anno di assunzione in Rai) al 1993 è al TG regionale del Lazio. In questo arco di tempo, e soprattutto negli ultimi anni, il suo impegno prevalente è quello di seguire la politica del comune e della regione. Nel ’93 è chiamato, dall’allora direttore del giornale radio Rai Livio Zanetti, al Giornale Radio Rai unificato svolgendo il ruolo di inviato speciale nel settore della politica, divenendo anche giornalista parlamentare. Dal settembre al febbraio del ’95 è distaccato al settimanale d’informazione parlamentare “Telecamere” allora trasmesso dalla Rete 2 Rai. Nello stesso periodo collabora alla trasmissione radiofonica “Zapping”. Nel ’73 collabora con il quotidiano Paese Sera nel settore della cronaca. Nel ’74 è assunto all’Ufficio studi della Cgil Nazionale si occupa di trasporti e fisco. Nel ’76 capo redattore del settimanale della Cgil nazionale “Rassegna sindacale”, poi direttore dal 1982 al 1985. Dall’86 all’87 è vice direttore del mensile Thema, direttore Federico Coen. Collabora dall’87 al 1988 con Milano Finanze, con il Mattino di Napoli e con il Giorno di Milano su argomenti socio economici. Dal 1998 presidente dell’Associazione culturale no profit “Fototeca di Roma” che gestisce un archivio fotografico di 6 milioni di fotografie.

E’ stato docente di tecnica del linguaggio giornalistico all’ISCOP presso l’Università S. Tommaso D’Aquino a Roma e docente di tecnica del linguaggio all’Istituto Europeo del Design di Roma


“Se il senno del poi non fosse comunque inutile e severamente vietato alle analisi economiche-sociali perché non assoggettabili a riscontri empirici, potremmo dire che gli anni sessanta, in cui le distorsioni strutturali della nostra economia, sopravvissute e forse esaltate dalla velocità dell’industrializzazione e dall’irrompere della concorrenza sul mercato italiano, avrebbero potuto essere almeno parzialmente ricomposte” (Sindacato industria e stato negli anni del centro sinistra- Felice le Monnier- Firenze 1983 pag V) Così scriveva negli anni Ottanta Agostino Paci, allora presidente dell’Intersind, l’associazione sindacale delle aziende pubbliche dell’Iri e dell’Efim, la cui costituzione nel ‘62 rappresentò un segno di forte distinzione delle aziende a partecipazione statali rispetto a quelle private raccolte nella Confindustria, che erano ritenute ancora troppo chiuse ed arretrate nelle relazioni sindacali. E allora ci accingiamo a descrivere la storia di un’occasione perduta, di una strada lastricata da tante buone intenzioni, ma ostacolata da arretratezze culturali dei partiti della sinistra, da grandi interessi economici miopi strettamente collegati con i partiti di destra e gran parte della DC, da raggruppamenti sociali dall’impostazione politica reazionaria a quelle fortemente conservatrice. Molte di quelle occasioni perdute non sono mai state recuperate, anzi si sono ossificate, hanno create orribili escrescenze che, pur mutandosi, sono arrivate fino ai giorni nostri. Chi furono i colpevoli? Qualcuno può dirsi esente da responsabilità?

Costruire il contesto è necessario: il quadro internazionale in cui si inseriscono le vicende italiane sia politiche sia economiche a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta. La consistenza dell’economia italiana e le sue “distorsioni”. Le scelte politiche dei partiti protagonisti in quegli anni, le filosofie, i timori, gli interessi, gli intrecci con i potentati economici. La cornice Gli Stati Uniti erano usciti senza distruzioni dalla seconda guerra mondiale e fu l’unico paese a continuare a crescere anche negli anni successivi. Alla fine della guerra la sua produzione industriale raggiunse quasi i due terzi di quella mondiale. Dunque l’America rappresentò il modello da imitare per tutti i paesi alleati che avevano come unica preoccupazione quella di riprendersi dalla guerra. Ma non va né dimenticato e neppure sottovalutato il ruolo dell’Unione Sovietica sullo scacchiere mondiale. “Sembrò all’inizio che l’area socialista, da poco allargatasi, fosse in vantaggio. Il tasso di crescita dell’URSS negli anni ’50 era più veloce di quello di ogni altro paese occidentale e l’economia dell’Europa Orientale crebbe quasi con la stessa rapidità, più velocemente in paesi fino allora arretrati, più lentamente in quelli già industrializzati o parzialmente industrializzati……..Tuttavia, negli anni ’60 diviene chiaro che il capitalismo era passato in testa rispetto al socialismo e procedeva a ritmo velocissimo” (E.J. Hobsbawm Il secolo breve Rizzoli 1998 pag 305). Con gli anni ’60 la produzione mondiale di manufatti quadruplicò. La crescita fu alimentata dalla rivoluzione tecnologica dovuta agli effetti della guerra che aveva sostenuta una domanda di tecnologia: radar, motore a reazione, transistor (inventato nel 1947), i primi calcolatori digitali civili (1946). Ma gli Usa avevano rastrellato i migliori cervelli mondiali. Insomma una delle cause importanti della crescita economica esponenziale fu l’intensificarsi dalla ricerca scientifica più avanzata. Ma ci fu un altro elemento che favorì la crescita “una sostanziale ristrutturazione e riforma del capitalismo e una spettacolare mondializzazione e internazionalizzazione dell’economia” (ibidem pag. 316). Il capitalismo che si praticò fu “come un matrimonio fra il liberismo economico e la democrazia sociale (o, in termini americani, una politica roosveltiana di New Deal) con aspetti non secondari presi a prestito dalla politica economica dell’URSS, che per prima aveva praticato la pianificazione economica” (ibidem pag 318). Gli Stati, che dovevano ricostruirsi si tennero alla larga dalle teorie del libero mercato non solo per ciò che era accaduto qualche decennio prima con la grande depressione degli anni Trenta, che causò il drammatico avvento della dittatura nazifascista e della conseguente catastrofica guerra mondiale. Poi c’era da confrontarsi con il regime sovietico e i partiti comunisti che erano ben presenti in occidente e prospettavano un modello economico sociale di tipo sovietico. Ancora, il ricordo che la grande crisi era stata causata da un mercato senza freni spingeva gli Stati occidentali verso “un mercato integrato, o comunque doveva funzionare all’interno della struttura predisposta dalla programmazione pubblica e dalla gestione direttiva dell’economia. Infine per ragioni sociali e politiche, si doveva operare perché la disoccupazione di massa non tornasse più” (Ibidem 319). Questa era la riforma del capitalismo che s’imponeva a livello mondiale. Erano queste le basi che a livello internazionale escludevano i partiti comunisti che continuavano a enunciare la conquista del potere, anche con mezzi democratici per instaurare poi il modello sovietico. I partiti socialisti europei invece non disponendo di soluzioni alternative, tranne quella di abolire il capitalismo senza in verità sapendo come fare, si adeguarono alla riforma capitalista che creava ricchezza che poteva essere redistribuita, questo capitalismo riformato rispondeva alle richieste sindacali e a politiche socialdemocratiche. “Dunque s’impone l’economia mista……Tutti volevano un mondo in cui vi fosse un aumento della produzione, crescita del commercio estero, piena occupazione, industrializzazione e modernizzazione, e tutti erano disposti ad ottenerlo, se necessario attraverso un sistematico controllo governativo e una direzione pubblica delle economie miste e attraverso la collaborazione con i movimenti organizzati delle classi lavoratrici, purché non fossero di orientamento comunista. L’Età dell’oro del capitalismo sarebbe stato impossibile senza questo consenso sul fatto che l’economia dell’impresa privata aveva bisogno di essere salvata da se stessa se voleva sopravvivere” (ibidem pag. 321)

La consistenza dell’economia italiana Nel 1960 l’industria contribuiva al reddito nazionale Italiano per il 46,6% ( nel periodo 1936/’40 era stato al 34,2%). Se si considerano i 5 anni della guerra perduta che provocò profonde distruzioni soprattutto nelle infrastrutture: ponti, strada, case, ferrovie, porti. Le aziende, però, nel complesso si salvarono, così, in appena 15 anni, si registra un vero e proprio boom industriale. Dai settori industriali che “tirarono” la crescita si capisce il livello tecnologico e produttivo dello sviluppo industriale italiano. Prima di tutto le aziende che producevano gas naturali e petrolio, in modo particolare la raffinazione del petrolio e i suoi derivati chimici. Insomma l’industria chimica crebbe vertiginosamente: facendo 100 il 1953 la produzione passò nel 1960 a 273. In questo settore industriale va ricordato il grandissimo contributo di Giulio Natta insignito nel 1963 del premio Nobel per la chimica per avere scoperto in particolare il polipropilene isotattico, in altre parole fu l’inventore della materia plastica. Alcuni di questi polimeri vennero commercializzati dalla Montecatini e da aziende dello stesso gruppo con il nome di Moplen (articoli in plastica) e Meraklon (fibra tessile). Nel 1960 l’industria chimica fornì l’11% del prodotto nazionale netto. Il settore industriale che contribuì maggiormente al prodotto nazionale netto, con il 29,4% nel 1961 fu l’ industrie meccanica. L’indice salì a 189 nel’61, facendo 100 il ‘53. Il solo settore dei mezzi di trasporto toccò l’indice 256,2 con le automobili che raggiunsero quota 429,7 e gli autobus 235. Ovviamente la Fiat la fece da padrona: produsse l’89% dalle automobili per uso civile e poi macchine agricole, materiale rotabile per le ferrovie, areoplani, materiale elettrico e anche energia nucleare. Un grandissimo sviluppo nel settore meccanico, dopo il 1953 lo ebbe l’industria delle macchine calcolatrici (697,4), macchine da ufficio (697,7) e macchine per scrivere (348,1). I maggiori produttori furono la Olivetti, l’IBM, l’Everest, e la Remington Rand. Anzi va ricordato che nel settembre del ’59 l’Olivetti chiude un ciclo e diventa una multinazionale acquistando l’americana Underwood ed entra a pieno titolo nel capitalismo internazionale. “L’apprezzamento per l’operazione è pressoché unanime; talvolta i giudizi in Italia sfiorarono l’epica, lo stupore all’estero per questa ‘italietta imprenditoriale’ e già autarchica che si è fatta valere sul colosso statunitense” (Valerio Ochetto Adriano Olivetti Marsilio 2008/2009 pag. 276). Aumentò enormemente la produzione di acciaio, nel 1938 da 2.376.099, a nel 1961 9.124.000 tonnellate. Altro settore assai importante e innovativo è quello energetico. L’indice della produzione idroelettrica nel 1961 salì a 151 (1953 = 100) e la termoelettrica a 409,5. L’Italia era anche proiettata nella produzione di energia atomica, nel 1963 entra in funzione a Latina la prima centrale elettro nucleare. Nel 1966 l'Italia figurava come il terzo produttore al mondo dopo Stati Uniti d'America e Inghilterra. La Fiat e Montecatini avevano unito le loro forze per finanziare la SORIN una società che doveva produrre energia nucleare per scopi industriali a Saluggia (Vercelli). Collegato alla produzione di energia c’era la produzione delle attrezzature elettriche. L’Italia ormai produceva ed esportava di tutto: generatori pesanti, dinamo, elettromotrici, tram, trasformatori, apparecchi elettrodomestici, lampade. E poi il grande business dell’edilizia pubblica e privata. Il 38% degli investimenti lordi del 1960 fu assorbito dai lavori pubblici e il 22% dagli alloggi. L’edilizia fu l’ altro volano dello sviluppo. Anche il campo delle comunicazioni registrò un balzo in avanti notevole. Le cinque società telefoniche che avevano ottenuto concessioni in varie regioni nel 1925 continuarono ad esistere, ma gradualmente passarono sotto il controllo dell’Iri. Sotto la guida della Stet la rete telefonica si sviluppò fino a comprendere 4 milioni di apparecchi, nel ’38 erano 611.000. Gli abbonati alla radio salirono da 1.169.823 nel ’39 a 5.881.823.000 nel ’60. E quelli della televisione nel ’60 toccarono il tetto di 2.123.545 42 ogni mille abitanti. (Per altri e più dettagliate informazione sul terziario, il credito, l’agricoltura e altri settori vedi Shepard B. Clough Storia dell’economia italiana dal 1861 ad oggi Cappelli editore 1965). Come fu possibile questo miracolo? O meglio, tutto ciò che accadde in appena un quindicennio, con un tasso di crescita del reddito vicino al 6%, può davvero definirsi un miracolo? “ In realtà , quello che ci fu di veramente miracoloso non è stato tanto la comparsa di una serie di fattori produttivi prima inesistenti, quanto la loro felice combinazione in un circolo virtuoso permesso dal nuovo clima internazionale di pace e apertura di mercati, che spinse verso mete di produzione prima inimmaginabili.” (Carlo Cipolla Storia facile dell’economia italiana dal medioevo ad oggi. Mondadori 1995). Tutte le imprese che furono protagoniste dello sviluppo travolgente, come ricorda Carlo Cipolla, già esistevano da decenni. L’economia italiana fu riorganizzata nel dopoguerra su due pilastri : Il Piano Marshal del ’47 da cui l’Italia trasse grandi vantaggi soprattutto nella metallurgia, nella chimica, elettricità, petrolio, metano, meccanica “spostando così definitivamente il suo fronte industriale da una prevalenza dell’industria tessile- alimentare a una composizione tipica di un paese industriale avanzato, centrata sui comparti metalmeccanico-chimico-energetico” (Cipolla ibidem). Il secondo pilastro fu la partecipazione convinta dell’Italia nell’aprile del ’51 alla costituzione della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio). All’Italia si aprirono mercati vasti che fino allora non aveva avuto. Le aziende scesero nell’agone dei mercati internazionali, si organizzarono sul modello americano per produrre beni a livello di massa e si diffuse il modello economico e sociale americano: il consumismo. L’americanizzazione dei consumi favorita dallo sbarco delle multinazionali americane come la Coca Cola, la Colgate, i chewing-gum i blue jeans (Il film ‘Un americano a Roma di Alberto Sordi’ è la descrizione migliore di come cambiava la cultura, il modo di pensare, la propensione al consumo del popolo italiano). L’Italia provò a produrre di tutto puntando sui prezzi contenuti, il design gradevole e creativo ( un esempio per tutti la Vespa e la Lambretta). Un ruolo essenziale per lo sviluppo l’assolse l’impresa pubblica: lo Stato. Dall’acciaio a ciclo continuo della Finsider ai telefoni della Stet, dalle autostrade dell’Iri alle joint venture dell’Eni con i paesi in via di sviluppo, alla creazione delle linee aeree (Alitalia) alla televisione pubblica (Rai). Nel ’62 nasce l’EFIM la terza impresa pubblica italiana, fu la terza finanziaria di proprietà dello stato italiano, collocata nel sistema delle "partecipazioni statali" . L’EFIM diventò un ente polisettoriale attivo soprattutto nel Mezzogiorno. L’apoteosi dell’interventismo di Stato si ebbe con la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Nel ’62 nasce l’Enel. “ Le aziende di stato vennero aumentate consistentemente con la nazionalizzazione dell’energia elettrica e con la creazione dell’Enel, un atto che suggellò l’unico mutamento politico importante subito dall’Italia nel periodo postbellico prima delle recenti vicende , ossia il passaggio da governi di centro destra a governi di centro sinistra, pur sempre egemonizzati dalla Democrazia Cristiana. Tale nazionalizzazione che, venne all’epoca salutata con favore dall’élite culturale del paese, indebolì il fronte della grande industria privata, con esiti di lungo periodo inaspettati e certo non soddisfacenti” ( Carlo Cipolla ibidem pag. 191). La domanda dei beni di consumo non alimentare stimolò i distretti industriali sia nel nord est sia nel centro Italia, nacque una imprenditoria piccola e media che non disdegnava l’innovazione tecnica per consolidarsi e che aveva radici in una cultura artigiana e mezzadrile.

L’altra faccia della medaglia Ma a questa splendida faccia della medaglia ne corrispondeva un’altra. Lo sviluppo del capitalismo portava con sé grandi contraddizioni che la parte politica più attenta aveva ampiamente e per tempo individuata. L’apertura dei mercati fu una grande spinta all’industria, ma non vennero proprio eliminati tutti i dazi e poi lo Stato favoriva con finanziamenti occulti l’industria e non ultimo i salari erano bassi. “L’industria in questo periodo ottiene profitti superiori, come media e in rapporto al capitale impiegato certamente più alti di quelli realizzati in altri paesi” (Ruggero Spesso L’Economia italiana dal dopoguerra ad oggi. Editori Riuniti 1980). La stabilità monetaria, altro elemento fondamentale per lo sviluppo era stata ottenuta non risolvendo quello che allora venivano definiti i problemi di struttura e cioè: arretratezza del Mezzogiorno e dell’agricoltura, alto numero di disoccupati. La scissione sindacale indebolì enormemente il potere di contrattazione, che fu una delle cause dei bassi salari. “Non solo il padronato, ma anche il governo intervenne, con discriminazioni di rappresentanza e licenziamenti politici, per indebolire ancora di più le organizzazioni economiche del lavoro” (R. Spesso Ibidem). Questo tipo di politica, applicata dai governi di centro destra, spinse ad aumentare l’occupazione nell’industria nella parte più avanzata del paese, il così detto triangolo industriale, accentuando disuguaglianze territoriali: Nord Sud e nei vari settori dell’ industria e dell’agricoltura. Insomma le risorse sottratte dal Mezzogiorno e dall’agricoltura servono da accumulo al capitale del Nord e all’industria. Non solo, ma il Sud e l’agricoltura fanno da mercato di sbocco per i prodotti del settentrione. Nelle zone più deboli l’industria tradizionale si ridimensiona sempre più, mentre in quella più avanzata, più moderne si rafforza. Questo modello di sviluppo dura fino alla seconda metà degli anni cinquanta. Dal 1951 al 1957 l’Italia continua a inserirsi nel mercato capitalistico internazionale utilizzando le occasioni procurate dalla guerra fredda, favorendo le esportazioni in modo diretto (venivano abolite o diminuite le tasse sui prodotti, forti finanziamenti per accaparrarsi la maggiore quantità di materie prime, tecnologie) e indiretto (basso costo della manodopera). Nello stesso periodo l’esportazione cresce del 52%, gli aumenti medi annui del reddito nazionale del 4,66%, i consumi del 3,46%, gli investimenti del 9,15%. Dal 1951 al 1957 l’incidenza dei redditi di lavoro dipendente passò dal 47,1% al 50,2%, il costo della vita aumentò del 3,1% a fronte della stabilità monetaria. “Non ci si può stupire che i salari e gli stipendi aumentassero solo dell’1% annuo, mentre le merci italiane diventavano enormemente competitive sui mercati esteri. Nel decennio 1951-’60, nei confronti di quello anteguerra (1931-‘40), le retribuzioni reali erano aumentate nell’insieme del 15%: cioè di pochissimo, specie se teniamo conto del fatto che anche prima esse erano bassissime. La situazione era arrivata ad un punto tale, da richiedere nuovi modi di accumulazione e di mercato e anche nuove alleanze sociali e politiche in seno ai ceti dominanti” (R. Spesso ibidem). Dunque il miracolo economico si fonda sull’esportazione dei prodotti industriali. L’andamento è vertiginoso l’incidenza delle esportazioni nel 1951 sul Prodotto dell’industria manifatturiera passa dal 30%, al 35% del 1962 fino ad arrivare al 50% nel 1972. La produzione industriale italiana continua a fondarsi sull’esportazione soprattutto meccanica e sul rinnovamento del processo di produzione attraverso investimenti intensivi soprattutto nella tecnologia e impiegando mano manodopera per ogni unità di produzione. Poi ci furono i due momenti decisivi nel ’57 la costituzione del MEC e nel ’58 la dichiarazione di piena convertibilità delle monete europee nelle altre monete forti. Ciò comportò che l’Italia cominciò ad approvigionarsi di più dai paesi europei, a cominciare dalla Repubblica federale tedesca, mentre i nostri prodotti si affermano sul mercato americano. Il reddito nazionale aumenta rapidamente, ma alcuni settori manifatturieri arretrano come l’alimentare e il tessile ( nei decenni passati erano i settori di punta), mentre aumenta l’industria metallurgica, la chimica e la meccanica. Cresce il terziario il settore dei servizi e della pubblica amministrazione. Dal 1950 al 1962 l’incidenza del settore agricolo sul prodotto interno netto cala da 33,1 al 19,8. Gli investimenti invece passano dall’1,7 al 12%. La crescita tocca l’11%. Le contraddizioni economiche si ripercuotono sulla società L’impetuoso sviluppo cosa provoca? Una diminuzione di posti del lavoro dell’industria nel Sud, livelli altissimi di emigrazione. All’inizio degli anni sessanta il flusso medio era di 500.000 persone l’anno. Nel 1963 si verificò una prima battuta d’arresto della crescita economica, causata da un risvegliarsi di rivendicazioni salariali, da una rapida ascesa dei prezzi dovuta a un aumento della domanda interna e da un peggioramento della bilancia dei pagamenti. Si fece fronte all’abbassamento del trend di crescita spingendo sempre di più sull’esportazione. Ma i veri problemi vennero dopo il ’64 e fu causato dal volere insistere nell’ imitare il modello fordista americano. “Il modello produttivo americano della catena di montaggio dava quei risultati imbattibili di elevata produttività che lo avevano reso vincente a livello internazionale in presenza, fra le altre cose, di un sindacato collaborativo, che limitava le rivendicazioni a salari più elevati e a migliori condizioni di lavoro ed effettuava scioperi circoscritti e prevedibili, e di una dirigenza che non negava aumenti salariali funzionali all’allargamento del mercato interno. Ora a dispetto della Cisl, che si era ispirato al sindacalismo americano, il sindacalismo italiano non praticava ideali di collaborazione e la dirigenza imprenditoriale italiana cercava di mantenere il vantaggio dei bassi salari a più a lungo possibile” (Carlo Cipolla ibidem pag. 192). Questo modello portò a un duro conflitto fra capitale e lavoro che portò all’autunno caldo del ’69. Ma qui siamo già in una nuova fase della storia d’Italia che paga i prezzi politici di un riformismo attuato poco e male o per nulla. Insomma siamo al culmine della fase dell’”occasione perduta”.

La politica: qualcosa si muove Nella seconda metà degli anni cinquanta, la politica comprese la necessità di cambiare, di aggiornare, di riformare, ma nella sostanza non ci riuscì. La stragrande maggioranza dei grandi interessi economici vedevano ogni innovazione come perdita di potere e soprattutto come rischio di perdere le rendite di posizione. Non c’è dubbio che il partito che avvertì la necessità di un deciso cambio di passo fu la Democrazia Cristiana, per il semplice fatto che dal dopoguerra aveva governato la ricostruzione del Paese, dunque possedeva lunghe antenne per percepire l’approssimarsi veloce del mutamento dei tempi. Negli anni cinquanta l’occupazione, la produttività, il reddito del paese erano cresciuti di molto. La formula politica del “centrismo” era stata alla base della ricostruzione combinando tecniche liberiste sostenute dall’intervento dello stato. Ma le elezioni politiche del ’58 registrarono il declino dei partiti di destra che fino allora avevano partecipato, in vario modo, ai governi. Dunque, se da una parte si erano toccati livelli di benessere impensabili dopo appena 12/13 anni dalla guerra, tuttavia dalla società civile venivano segnali di forte scontento. Maturavano le condizioni per superare la formula politica del centrismo. Iniziò, dunque, a splendere la stella di Amintore Fanfani che assunse alla segreteria della DC nel ’57 quando il Consiglio Nazionale lo elesse a Vallombrosa. Là prospettò la fine dell’alleanza con i liberali. Il PLI rappresentava in gran parte gli interessi conservatori, facendo da sponda a quella parte della DC che, anche se minoritaria, con la motivazione dell’unità dei cattolici, esprimeva tendenze di natura conservatrice. Fanfani iniziò a delineare un’alleanza con il Psi, recuperando l’antica idea degasperiana della Dc come “un partito di centro in marcia verso sinistra”. L’entrata del PSI nella maggioranza era vista come una legittimazione di grandi masse popolari che fino allora erano state escluse dal governo della Repubblica. Ma anche per rafforzare i presidi della democrazia contro eventuali minacce provenienti da destra e da sinistra. In quel momento storico sul terreno della politica italiana c’era una grande Partito comunista che si presentava come fedele alleato dell’Unione sovietica e dell’Internazionale comunista, rigido dal punto di vista dottrinario. Insomma, volente o nolente, appariva all’opinione pubblica come una forza che voleva creare una società socialista sul modello di quello dell’Est Europeo. Inoltre, fatto per nulla secondario, non va dimenticato la collocazione occidentale dell’Italia nella divisione del mondo in due blocchi. I comunisti italiani erano esclusi dal governo. Vi erano anche forze non trascurabili e temibili di destra, contrarie a ogni progresso democratico. Ogni, pur timido cambiamento, veniva interpretato come l’arrivo della sinistra nello Stato. Con l’apertura a sinistra della DC si poneva anche la questione della laicità dello Stato. Tema che fu il cavallo di battaglia di Ugo La Malfa che lo pose con forza insieme all’apertura al Psi. La Chiesa di Pio XII era un ostacolo al dialogo democratico del Paese. Insomma le forze più avvertite stavano preparando le premesse per l’affermazione di un disegno neo capitalistico inteso come modernizzazione della produzione, del mercato, dell’innovazione e di un nuovo rapporto tra imprenditori, sindacati e politica. Nell’ottobre del 1956 si tiene a Trento il VI congresso della DC. Amintore Fanfani delinea una nuova strategia del partito nell’economia pubblica: “L’Iri abbia finalmente il nuovo Statuto che lo renda strumento primo del nostro progresso industriale e gli consenta di orientare le aziende dipendenti in modo tale da essere sul mercato elementi e fattori di concorrenza, capace quindi di contrastare la formazione di posizione monopolistiche. Con la sua azione amministrativa e legislativa nel campo delle concessioni, del credito, dei prezzi, della tassazione, lo Stato impedisce la formazione e l’esercizio di monopoli nocivi all’economicità del nostro sistema, alla libertà della nostra democrazia. Approvazione della legge che, secondo le esperienze più certe, deve disciplinare la ricerca, la produzione e l’utilizzazione dei combustibili per l’energia nucleare. Con la politica delle ricerche nucleari, ci si è introdotti nel campo della politica dell’energia. La nostra situazione dell’ultimo decennio è migliorare grazie ai ritrovamenti e alle utilizzazioni metanifere che i privati e soprattutto l’ente di Stato hanno compiuto. Nel settore elettrico la DC deve chiedere una politica ferma e chiara. In previsione dei termini per la cessazione delle concessioni, si studi in tempo una linea, tenendo conto dei diritti dello Stato, delle concrete possibilità di esercizio da parte di enti pubblici, della convenienza per lo sviluppo economico italiano. La politica delle fonti di energia deve agevolare la riforma sociale in senso solidarista cristiana”….”Dobbiamo ancora confidare nel rinnovamento cristiano che, rifacendosi a motivi etici, può, correggendo l’ispirazione materialista del capitalismo, individualista in Occidente, collettivista in Oriente, giungere alla sintesi degli obiettivi personalistici e solidaristici di una ordinata società. Questo non mortificherà la ricerca tecnica, anzi la nobiliterà. E nobilitandola la esalterà, come un moto per scoprire i tesori di energie e di forze che Dio ha posto al servizio dell’uomo.” Un programma ambizioso, dirigistico, attento alle innovazioni, alla ricerca più avanzata, che in quel momento è il nucleare, soprattutto c’è l’idea del ruolo forte dello Stato nell’economia. Va sottolineata la proposta politica centrale: “L’estensione del potere del partito nell’economia mette in discussione le basi del compromesso realizzato dieci anni prima con la grande borghesia. Su questo problema si delinea, subito dopo il congresso di Trento, lo scontro tra Fanfani e il gruppo che si definirà ‘doroteo’ “ (Storia della Democrazia Cristiana. Giorgio Galli edit. Laterza 1978)

I risultati si vedono subito. Il 22 dicembre 1956 è approvata la legge istitutiva delle partecipazioni statali e per rassicurare la grande borghesia, il ministero è affidato a Giuseppe Togni legato alla Montecatini, uomo notoriamente di destra. L’11 gennaio 1957 è votata la nuova legge sugli idrocarburi che garantisce all’Eni l’esclusiva della ricerca e dello sfruttamento su tutto il territorio nazionale con l’esclusione della Sicilia. Il 23 marzo 1957 l’ultimo atto del governo Segni è la firma del trattato istitutivo del MEC che consentirà all’economia italiana un mercato vastissimo, così che l’esportazione dei beni strumentali, pur rimanendo sotto il controllo del capitalismo privato, ha una spinta verso uno sviluppo imponente. Ecco come si presenta la situazione politica nell’ultimo scorcio degli anni cinquanta. “Mentre l’estensione del potere democristiano nell’economia è un fenomeno che si sviluppa secondo ritmi lenti e che i gruppi oligopolistici ritengono di potere bloccare, la creazione di condizioni che consentono al grande capitale privato di rafforzarsi sui mercati internazionali e di garantirsi elevati profitti e autofinanziamenti (facilitati dal basso costo del lavoro, in conseguenza del ridotto potere sindacale), è un processo a ritmi veloci.” (Giorgio Galli ibidem pag182):

Il doroteismo condivideva l’idea dossettiana, ripresa con un po’ più di moderazione da Fanfani, che vedeva nella democrazia cristiana il moderno principe che vuole orientare la società secondo i disegni della Chiesa attraverso l’acquisizione di sempre più vasti poteri di gestione economica. Dossetti fu il primo ad affermare che tale orientamento era impossibile senza un controllo sempre più esteso del potere economico che arrivasse a conquistare l’egemonia sul grande capitale privato. Una teoria che se attuata senza accortezza poteva scatenare molti problemi. I dorotei erano preoccupati che il processo fosse troppo rapido e troppo esplicito, dunque pericoloso, perché turbava gli interessi del grande capitale e della grande borghesia che, comunque, aveva aiutato la DC a diventare il partito di maggioranza relativa e il rischio era che avrebbe potuto bloccarla e sconfiggerla. Aldo Moro sarà l’uomo che applicherà la linea dossettiana-fanfaniana, negli anni sessanta, ma sarà fortemente depotenziata. La sua principale caratteristica politica, a differenza di Fanfani, fu quella del rinvio, della dissimulazione, del mascherare per non coagulare gli interessi di coloro che si sentivano minacciati.

Anche i socialisti non stanno a guardare Ma cosa accadeva sul fronte della sinistra e in particolare nel PSI? Mentre si delinea l’espansione industriale nella seconda metà degli anni ’50, i dirigenti socialisti non si avvedono che l’Italia sta cambiando. Vittorio Foa, un dirigente sindacale socialista di primo piano scrive su Mondo operaio (luglio-agosto 1977) “Ci fu da parte nostra un incredibile ritardo di percezione. Continuammo a lungo a credere di avere a che fare con un capitalismo fasullo, sull’orlo della crisi definitiva”. Giorgio Galli descrive la situazione culturale in cui versa il PSI almeno fino al 1956. “Si tratta di un ritardo rispetto al crescere della società industriale, della cultura che le è propria nelle scienze sociali (economia, sociologia, politologia)……Ma la dirigenza politica è ancora più arretrata, assorbita dalla nenniana ‘politique d’abord’ che ora ha per punto di riferimento non più il PCI, ma una DC ritenuta possibile alleato di un’età delle riforme, a seguito del prevalere in essa della componente innovatrice.

Il disegno storico rimane quello del periodo giolittiano, anche se la DC darà poi luogo a una certa caratteristica specifica: creerà il capitalismo assistenziale con la borghesia di Stato” (Giorgio Galli Storia del socialismo italiano Baldini Castoldi Delai editore 2007 Milano pag. 309 e seg.) Però anche in questo partito qualcosa comincia a muoversi. Nel XXXI congresso del Psi, che si tiene a Torino il 31 marzo/ 3 aprile 1955, Nenni pone la questione centrale del congresso: “E’ necessario affrontare e cercare di risolvere per il meglio e su un piano nuovo il problema dei nostri rapporti con le masse cattoliche. Col loro partito e le loro organizzazioni: poiché la Dc ha enunciato un programma politico sociale, deve avere il coraggio di fare ciò che dice. Se essa compisse questo primo passo sulla via di impegnative realizzazioni programmatiche, il PSI darebbe il proprio appoggio alle riforme da essa propugnate, assumendo le proprie responsabilità”. (Il socialismo italiano di questo dopoguerra, Milano 1968 pag.404) Dichiarazioni impegnative che orienteranno l’intera sinistra per un quarto di secolo. La Dc fino agli anni settanta non attuerà mai i suoi programmi e la ragione c’è e la esplicitò nello stesso congresso Riccardo Lombardi che pur approvando la linea politica di Nenni tenne a dire e lo ripeté per molti anni a venire: “Un piano organico, come per esempio il piano Vanoni, può essere realizzato soltanto contro qualcuno, cioè contro le forze monopolistiche accampate nei punti di passaggio obbligati dall’azione economica.” (Ibidem pag. 409). Comunque Nenni attendeva l’ascesa alla presidenza del consiglio di Amintore Fanfani che aveva individuato come forza innovatrice della DC e che poteva rompere il centrismo rappresentato in quel momento dal governo Scelba Saragat. A meno di un mese dal congresso di Torino, i socialisti appoggiarono la candidatura alla presidenza della repubblica del cattolico sociale Giovanni Gronchi (29 aprile 1955), convincendo anche il PCI a votarlo, contro il candidato dei centristi che era Merzagora. Prove di apertura a sinistra e dialogo con i cattolici. Ma le tattiche non sempre portano a dove si vuole arrivare. Gronchi deluderà i socialisti sostenendo il governo Tambroni altro uomo politico che si diceva favorevole all’apertura a sinistra, formando un governo (giugno del 1960) che portò a scontri di piazza tra polizia e lavoratori, i più duri dopo quelli del 1948.

Il PSI, per il momento, è sempre alleato con il PCI, e lo rimarrà tra alti e bassi fino al ’57. Su quali basi politiche? Pietro Nenni le riassume così: “Non rompere la unità dello schieramento operaio e popolare impegnato in una dura lotta contro la massiccia manovra restaurazionistica, gravata da tendenze fortemente reazionarie; fermare il paese e la classe politica dirigente sulla china delle alleanze militari che erano state un cappio per l’Italia prefascista, per lo stesso fascismo e rischiavano di esserlo per l’Italia post fascista; batterci contro le minacce della terza guerra mondiale e per la distensione nei rapporti tra i due blocchi, una volta questi costituiti” (Pietro Nenni Introduzione all’antologia Mondo Operaio 1956-1965 v. I Roma 1966). E’ ancora un partito ideologico di ispirazione marxista, subordinato politicamente e culturalmente al PCI. Ma la destalinazzazione, il 1956 l’anno del XX Congresso del PCUS, della rivoluzione di Ungheria schiacciata dai carri armati sovietici scuote il Partito socialista e manda in crisi anche il PCI. Questi eventi planetari non possono lasciare indifferenti il PSI che denuncia il patto di unità d’azione con il PCI e agevolano l’avvicinamento alla Dc. Contemporaneamente Nenni s’impegna a migliorare i rapporti con il PSDI tanto più che le elezioni amministrative del maggio del ’56 avevano punito il PCI e avevano fatto registrare un successo sia del PSI, sia del PSDI. Nel luglio del ’56 Nenni s’incontra con Saragat a Pralognan in Valle d’Aosta e tutto fa credere che il Psi voglia rompere l’intesa con il PCI per aprire al PSDI. Però esplode la ribellione di una parte del partito (Basso, Vecchietti, Pertini) contro il radicale cambiamento di linea. Si registra da ora un cambiamento nel PSI: dal centralismo democratico di Morandi, che durò fino ai primi anni cinquanta, nel partito nascono le correnti. Così il Psi giunge al congresso di Venezia, febbraio 1957. che pone fine all’alleanza con il Pci e preannuncia un processo di unificazione con il PSDI. Il PSI sceglie di collocarsi nell’ambito del socialismo occidentale. Dunque i socialisti riprendono la strada gradualista del riformista Turati percorsa nel primo decennio del secolo. “E’ la strada dell’intesa con la classe dirigente dell’egemonia capitalista, rappresentata allora dal giolittismo e negli anni Cinquanta dalla DC” (G. Galli Ibidem pag. 308).

La palla passa a Fanfani, ma la perde Fanfani, allora, fa un passo avanti, e nel Consiglio nazionale di Vallombrosa del 12 luglio 1957, considerando fallito il tentativo egemonico dei partiti socialisti europei in seguito alla crisi comunista del ’56, non affronta più, come fece nel congresso di Trento la questione socialista e comunista in termini di ‘socialcomunismo’, ma pone il rapporto solo con i socialisti: o come alleati, se saranno subalterni, oppure, se avessero voluto affermare un proprio indirizzo, come avversari. La questione innerverà la politica dorotea e morotea per un ventennio. Nenni nel XXXII congresso (Venezia febbraio 1957), come è stato detto, rompe con il PCI e preannuncia l’unificazione con il PSDI. Colloca il PSI nell’ambito del socialismo europeo. E vince il congresso che, nella risoluzione finale approva la linea politica. Ma quando si elegge il Comitato centrale va in minoranza, vincono Basso, Valori, Vecchietti, cioè la sinistra del partito. In questi anni, sono le elezioni politiche e amministrative e non i sondaggi a misurare il consenso di una linea politica. Nelle elezioni del 25 maggio del 1958 la DC ottiene il 42% dei voti, un grande risultato, ma non è esattamente quello a cui puntava Fanfani che voleva ottenere una maggioranza parlamentare solida per estendere l’economia pubblica sotto il controllo della classe dirigente del partito. Il PSI con il 14,2%, anche questo un ottimo risultato, resta determinante sul piano parlamentare. La Dc si divide. I dorotei, che hanno come punto di riferimento Antonio Segni, ritengono che non è maturo una collaborazione con il PSI. Aldo Moro invece si batte per la collaborazione. Conclusione, si forma un governo DC PSDI che non raggiunge il 50% neppure con l’appoggio esterno del PRI, ma Fanfani, che presiedeva il governo, lo definì di centro sinistra. Affidò la vice presidenza a Saragat per avere il rappresentante di un socialismo docile, quello indocile rimase fuori. Il progetto di Fanfani non si realizzò, perché non era riuscito a creare un blocco sociale che lo avrebbe aiutato a superare le resistenze della grande borghesia al suo progetto di redistribuzione del potere, creando un forte settore di economia pubblica guidata dai democristiani, perciò il governo durò assai poco. Il 26 gennaio del ’59 si dimette e 4 giorni dopo Fanfani lascia anche la segreteria del partito. Con questa mossa pensa di mettere in difficoltà i dorotei, arrivare al congresso e vincerlo. Ma la contro mossa dei dorotei, Gui e Rumor, lo anticipò favorendo la costituzione di un governo Segni sostenuto dalle destre con lo stesso programma di Fanfani (24 febbraio 1959). Il 9 marzo, il gruppo di “Iniziativa democratica” si riunisce nel convento di S. Dorotea (da qui il nome della corrente: dorotei) e fu deciso di affidare ad Aldo Moro la segreteria del partito. Si trattava di depotenziare l’impeto fanfaniano sia al governo sia al partito che fino ad allora era nelle mani del leader aretino.

Nenni non demorde Mentre nella Dc i dorotei si oppongono alla politica di Fanfani che vuole estendere il controllo del partito sull’economia pubblica e tout court su quella privata provocando forti tensioni con la grande borghesia tradizionale, a Napoli si apre dal 15 al 18 gennaio del 1958 il XXXIII congresso del Psi. Pietro Nenni chiede “la riconferma della politica approvata a Venezia: nulla di più e nulla di meno” (Psi-Il XXXIII Congresso Nazionale Milano 1959 pag.13), e spiega :”Ciò che vive non è l’apertura a sinistra, ma è la volontà, mai venuta meno al partito, di sgomberare la via alla naturale convergenza delle masse cattoliche e di quelle socialiste, su un comune terreno di lotta per le rivendicazioni economiche dei lavoratori, per le riforme di struttura, per la democrazia. Il problema rimane, ma si pone in termini di alternativa politica e di potere” E viene riproposta l’ottocentesca posizione del partito “revisonista” della socialdemcrazia tedesca , nel senso che la democrazia rappresentativa non è solo uno strumento della borghesia dominante. La classe operaia deve conquistare legalmente lo Stato democratico attraverso elezioni, maggioranze parlamentari e poi utilizzarlo per superare le resistenze borghesi per instaurare il socialismo. L’alternativa democratica, per Nenni, è la riproposizione di “ Una lotta per conquistare lo Stato alla democrazia, dopo di ché sarà aperta la via per conquistare la democrazia al socialismo” (ibidem pag. 398-342). Nel congresso veniva sottovalutato l’abbandono del PCI dalla dipendenza dell’URS. Nel ‘59/’60 il prestigio dell’Unione Sovietica stava aumentando grazie alla scienza nella gara spaziale con gli Usa. Le conquiste scientifiche stavano lì a mostrare la superiorità del socialismo sul capitalismo. La nuova situazione metteva in ombra gli accadimenti del ’56: l’invasione d’Ungheria e dava uno nuovo slancio ai comunisti italiani. Il congresso di Napoli inoltre non dava il giusto peso alla lotta in corso nella DC e considerava erroneamente che la Democrazia cristiana potesse essere conquistata da una maggioranza realmente riformista sottovalutando così le dinamiche, i rapporti di forza e gli interessi che si stavano confrontando nel partito cattolico. Discutibile era la valutazione di Riccardo Lombardi che sosteneva “Se noi consideriamo immobile la situazione quale è oggi determinata dai rapporti di forza tra partiti che sono poi il riflesso dei rapporti di forza tra le classi sociali del nostro Paese….non esisterebbero prospettive per l’alternativa democratica, ma non esisterebbero neppure speranze per la Repubblica italiana…. “ Un’analisi negata dalla storia in quanto la Dc, partito per quanto conservatore, rappresentava pur sempre larghissime fasce popolari. Il partito socialista a Napoli disegnava scenari molto interessanti che poggiavano però sull’argilla. E’ in questo congresso che la programmazione economica, sostenuta soprattutto da Riccardo Lombardi, è considerato lo strumento principe della trasformazione. Per esempio la nazionalizzazione dell’industria elettrica, proposta forte del partito. “Per il settore della DC che finge di appoggiarla, la programmazione – che rimarrà sulla carta- è invece l’orpello teorico di una politica di graduale conquista dell’economia. E la nazionalizzazione dell’industria elettrica significa impadronirsene, così coma la nuova borghesia di Stato già si era impadronita del settore della politica energetica, controllato dall’Eni e dalla siderurgia attraverso l’Italsider e come s’impadronirà della chimica attraverso la Montedison” (Giorgio Galli Storia del socialismo italiano Baldini Castoldi Delai editori pag323)

Sconfitta di Fanfani. E’ il turno di Moro L’arrivo di Moro alla segreteria sembra essere quello di un segretario provvisorio che ben presto verrà sostituito da una personalità più forte che potesse rappresentare la corrente dorotea. Si apre nella Dc un forte confronto tra i dorotei che assumono l’immagine di conservatori, mentre Fanfani appare come il progressista, tanto che Lelio Basso scrive che per i settori più avanzati del partito socialista “ le cui speranze erano state recentemente ravvivate dal mito che si era formato attorno al riformismo fanfaniano” (Problemi del socialismo marzo 1959). In realtà, almeno per tutti gli anni sessanta fu possibile alla dc, dorotei compresi, una nuova politica di ‘centro’ che venne definita di ‘centro sinistra’. Le basi oggettive di questa politica, che emarginò la destra che aveva costituito la maggioranza del governo Segni del ’59, erano rappresentate da quello che fu presentato come ‘il miracolo economico’” Fanfani si prepara al congresso, fonda la sua corrente “Nuove cronache” e raccoglie intorno a lui tutte le forze di sinistra del partito: dalla corrente Nuove Cronache a quella dei sindacalisti denominata Rinnovamento Democratico,(successivamente si chiamerà Forze Nuove, vi aderiscono, oltre a Giulio Pastore, Carlo Donat Cattin e Bruno Storti) la corrente di Base. Il VII° Congresso nazionale di Firenze vede prevalere sul filo di lana il raggruppamento più moderato della DC i dorotei di Moro e Segni, la corrente Primavera di Andreotti, la corrente Centrismo Popolare di Scelba. Per tutti gli anni Sessanta, la Segreteria politica della DC viene tenuta dai dorotei. Aldo Moro prima, poi Mariano Rumor una volta che Moro va a guidare i governi di centro-sinistra, poi Flaminio Piccoli per un breve periodo. Al congresso di Firenze, Fanfani presenta il suo programma “Sentiamo dire che la Dc non è sorta per puntellare lo Stato liberale. Ne siamo convinti. Bisogna passare dallo schema al programma. Immagino che qualcuno sorga ad opporre al preconizzato programma i limiti della libera iniziativa ed il diritto di proprietà……..La programmazione è indilazionabile. Quelli che dicono: ’Badiamo al programma senza preoccuparci degli aiuti che riceviamo dall’esecuzione di esso’, se sono in buona fede sbagliano. Essi infatti giustificano con tanta spigliatezza le alleanze a destra, ma devono rendersi conto che il loro principio, se ritenuto valido per le destre, potrebbe domani essere fatto valere per il settore opposto. Quindi insistiamo: se i programmi devono essere eseguiti con lealtà hanno bisogno di compagnie omogenee e democratiche. La crescita dei consensi allo Stato democratico per riduzione dei consensi ad esso sottratti dal comunismo e dai suoi alleati, o si ottiene con lo sfondamento a sinistra nel campo elettorale dai noi proposto, o si ottiene con il distacco del PSI dal Pci. E non chiudo con ciò le porte alla speranza del conseguimento dell’uno e dell’altro obiettivo: l’aumento dei nostri suffragi ed il distacco del PSI dal Pci” (Atti del VII Congresso Nazionale della DC Roma 1961 pag 324) Gli risponde il leader dell’ala conservatrice Aldo Moro, già dossettiano anche lui : “In realtà. Al di là delle impegnative dichiarazioni e forse delle buone intenzioni di un gruppo di vertice del PSI, la posizione del Partito Socialista resta allo stato delle cose tutt’altro che chiara ed è ancora ben lontana dall’offrire quella piena disponibilità, senza riserve né ombre, né possibilità, nell’equivoco di conturbanti interventi di terzi che la democrazia italiana attende da anni. Che significa infatti la permanente solidarietà di classe e quali necessari riflessi ed espressioni ha sul terreno politico….Non vale fingersi sdegnati per la presunta involuzione della DC in senso, come si dice, clerico fascista, quando si è fatto tanto poco (e oltre tutto nello stesso senso si sono immobilizzati e come ipnotizzati gli altri) per rendere normale nella dialettica democratica il gioco delle forze politiche” (Ibidem pag. 42) Le due posizioni non sono antitetiche: il principio è che il sistema di potere della DC va puntellato anche allargando il consenso, ma sostiene Moro: un’alleanza con i socialisti è prematura, almeno fino a quando essi non compiono atti espliciti di rottura con i comunisti e fino a quando ciò non si verificherà è opportuno utilizzare anche alleanze di destra. Nuovi equilibri politici scaturiscono dal Congresso: i dorotei non stravincono, ma anzi hanno bisogno dei voti delle correnti di destra: quella di Andreotti e di Scelba. La corrente di sinistra perde, ma non è travolta. Il fatto nuovo è che Moro ottiene più voti del blocco del centro destra, dunque entrato al congresso come segretario di transizione ne esce come leader effettivo del partito . Non solo, si delinea una sottocorrente nei dorotei che diventerà la corrente moretea che, collegandosi con quella ancora forte di centro sinistra potrebbe capovolgere, in qualsiasi momento, gli equilibri congressuali. La conclusione pratica di questo congresso è che i dorotei non hanno la forza di occupare i gangli economici dello stato muovendo dal partito, proprio come teorizzò Fanfani nel 1954. I dorotei perdono un’ occasiona formidabile, non riuscendo a conquistare il partito non riuscirono ad egemonizzare la massima espansione dell’economia italiana tra il 1959 e il 1962. La divisione se allearsi o no con i socialisti, che fu al centro del congresso, tenne impantanato il partito in una lotta di correnti che si concluse solo con il governo Fanfani del 1962, quando la legislatura era ormai conclusa. Fu Moro ad applicare la linea politica dorotea di sostituire il PLI con Il PSI, ma con un’alleanza tra ineguali. Moro ottenne la collaborazione subalterna del PSI dopo la crisi del luglio ‘64,ma il ciclo economico era ormai entrato in un’altra fase: rallentamento del tasso di sviluppo e quindi una gestione basata sullo “stop and go” e sulla stagnazione.

Il fatidico anno ‘60 Il primo a fare le spese del nuovo corso è il governo monocolore di Segni, sostenuto dalle destre in primo luogo dal Partito liberale. Nell’autunno del 1960 si dovevano svolgere le elezioni amministrative. L’interesse del segretario del PLI, Malagodi, in concerto con la destra DC: Andreotti e Scelba, fu di fare cadere il governo Segni per costringere la Dc a formare un governo centrista, che difficilmente avrebbe aperto ai socialisti, perché così prefiguravano, la DC avrebbe pagato un prezzo nelle urne. Dunque il 21 marzo il governo Segni si dimette. La crisi governativa del giugno/luglio 1960 si presenta difficile per l’impossibilità della Dc di aprire al PSI. Il grande disorientamento nella Dc spinge Gronchi ad affidare l’incarico a Tambroni, il quale ci prova una prima volta, ma non riesce a formare il governo. Gronchi allora conferisce l’incarico a Fanfani che tenta la formazione di un governo di centro sinistra. Alle minacce dei cardinali Siri e Ottaviani ( due conservatori che ebbero forti contrasti con chi voleva innovare la secolare tradizione ecclesiale, critici con le scelte del concilio Vaticano II) si aggiungono quelle del potentissimo Paolo Bonomi, fondatore della Coltivatori Diretti, che sfruttò la tradizione cattolica dei contadini italiani per divenne uno dei baluardi delle forze di centro contro la sinistra, Fanfani, la sera del 22 aprile, alla TV rinuncia all’incarico ( trovare documento rai). Gronchi, allora, richiama Tambroni e presenta un governo amministrativo e provvisorio facendo intendere che si dimetterà il 31 ottobre dopo l’approvazione del bilancio. Ma dopo appena 15 giorni da presidente del consiglio riduce il prezzo della benzina e dello zucchero per rendere tangibile la fase del miracolo economico, avvia intese con grandi imprenditori privati ai quali promette un governo forte. Tambroni con l’appoggio di Gronchi cerca di trasformare il suo governo da provvisorio in uno di legislatura.

Il tentativo si colloca in un quadro di tensione internazionale: l’abbattimento di un aereo spia americano sul territorio dell’URSS. (ricerca immagini Rai) Inoltre l’atteggiamento assunto da Tambroni preoccupa non poco la stessa dirigenza DC, perché in Tambroni vedono riemergere le vecchie velleità golliste di Gronchi. E allora viene costruita una vasta intesa che va da Scelba a Fanfani per creare difficoltò al governo fino a farlo cadere prima dell’approvazione del bilancio. La convocazione del congresso del MSI fu l’occasione. I partiti antifascisti si fecero interpreti dell’indignazione di questo congresso presieduto da Carlo Emanuele Basile responsabile di deportazioni e di stragi durante l’occupazione tedesca a Genova medaglia d’oro della Resistenza, ma non ne chiesero l’annullamento. Avrebbero organizzato il 2 luglio una manifestazione popolare, mentre si svolgeva l’assise, con l’intervento di Ferruccio Parri. Però il 28 giugno Sandro Pertini dichiara che il congresso non si deve fare e queste parole furono raccolte dai giovani e dagli operai genovesi. La Cgil indice scioperi fino a quello imponente del 30 luglio. Tambroni è in difficoltà, perché dopo avere fatto provvedimenti popolari per conquistare consenso e trasformare il suo gabinetto da provvisorio in permanente, si trova ad avere il paese reale in piazza con la polizia schierata. E’ la prima manifestazione violenta da quel lontano 14 luglio 1948 (l’attentato a Togliatti). I manifestanti sono assai aggressivi, contrattaccano la polizia, addirittura in Piazza Ferrari a Genova la sopraffà ( documentazione di archivio Rai), vengono conquistate armi. Gli incidenti potrebbero continuare anche il giorno dopo. Tambroni cerca di spostare il congresso a Nervi, ma il MSI rifiuta, perché anche lì non c’è sicurezza. Il congresso viene rinviato. Tambroni cerca la rivincita. I carabinieri a cavallo a Roma a Porta San Paolo il 5 luglio caricano un corteo antifascista, in risposta si moltiplicano i cortei e gli scioperi. Tambroni non molla vuole mostrare che il suo è un governo forte e ordina alla polizia di usare le armi. Il 6 luglio a Reggio Emilia restano sul terreno 5 morti. (La canzone di Fausto Amodei). Viene dichiarato lo sciopero generale, la tensione è altissima, il presidente del senato interviene e chiede alle sinistre di sospendere le agitazioni. Le sinistre accettano a condizione che la polizia ritorni nelle caserme. Tambroni rifiuta. Siamo al culmine della crisi di luglio. Togliatti, a questo punto, impone la tattica della grande prudenza. Nenni, che punta al centro sinistra e aveva fiducia in Gronchi, non forza per non creare ulteriori difficoltà alla DC. Gronchi comprende tutti i rischi e non appoggia più in modo deciso Tambroni. Cisl e Uil si differenziano dalla Cgil. Così la situazione ritorna sotto controllo e Tambroni dichiara di avere dominato la piazza e sventato la manovra comunista. Invece è proprio il PCI che cerca di controllare la situazione che non aveva certo provocato, anzi in parte ne era stato scavalcato. Tambroni vuole sfruttare la situazione per apparire come l’uomo forte. Si parla di telefoni sotto controllo, di dirigenti democristiani che non tornano a casa a dormire, di documenti compromettenti per i capi democristiani pronti per essere divulgati. La tensione politica non dura a lungo. Nella seconda metà di luglio tutta la DC da Sullo a Scelba tratta con i partiti di centro e Moro escogita la famosa formula politica delle “convergenze parallele”. Un mono colore democristiano sostenuto da PSDI,PRI,PLI, appoggiato dall’astensione a sinistra dal Psi a desta dai Monarchici. Quando le trattive si concludono, la direzione della DC invita Tambroni a dimettersi e lui, dopo qualche tergiversazione, lo fa il 19 luglio 1960. Questi fatti dimostrano due cose: la prima è che la DC non può appoggiarsi a destra fino a quando non sia pronto ad allearsi con uno PSI subordinato. La seconda è che le masse popolari sconfitte negli anni 50 hanno rialzato la testa mostrando capacità di lotta e di mobilitazione al di là delle indicazioni della sinistra storica.

Il centro sinistra s'a' da fare: ma con judicio Nell’ottobre del ’60 si svolgono le elezioni amministrative e sono queste che preparano la svolta per la DC, nel senso che avanza la possibilità di alleanze con il PSI in alcune grandi città. Ora è possibile assaggiare il terreno, perché anche se la DC flette leggermente superando solo di poco il 40%, , Il PLI e IL MSI si rafforzano alle spalle dei monarchici, il PSDI si rafforza e il PSI resta fermo agli stessi livelli del ’58. Dunque l’esperimento che non fu possibile nel ’56 (tentativi della DC di alleanze con il PSI) ora nel ’61 è possibile, perché si sono create condizioni a lei favorevole: fallimento dell’unificazione socialista ideata a Prologan. Il PSDI va avanti, Il PSI non è in espansione elettorale ed è spaccato al suo interno. La sinistra del partito è ostile all’alleanza con la DC prende quasi la metà dei voti al congresso di Napoli e a quello di Milano del ’61. Il PCI con il 24% mostra di riprendersi dopo i fatti del ’56, ma all’orizzonte se ne sta preparando un’altra quella del XXII Congresso del PCUS nel quale Krusciov riprende le critiche a Stalin e cova quella che esploderà nel novembre del ’61: la rottura con la Cina. La DC valuta che è il momento buono per avviare a livello locale un’intesa con il PSI. Se però a Genova, Milano e Firenze si formano giunte di centro sinistra, a livello nazionale non c’è ombra di accordo, anzi nel marzo del ’62 si ritorna alla stessa formula di governo del ’60: DC, PSDI, PRI con l’astensione determinate del PSI. La Democrazia Cristiana si muove con grande lentezza ed è ondivaga. Sono occorsi 5 anni, dal 1956 al 1961, per realizzare le giunte di centro sinistra e nel quinquennio c’è stato un cambiamento radicale, basti ricordare l’inurbazione e la selvaggia speculazione edilizia, ma solo alla fine del ’63 si realizza il progetto di governo vero e proprio del centro sinistra, che produce però sul piano legislativo quasi nulla, perché proprio quando si attua la nuova formula politica, finisce il così detto miracolo economico e inizia un ciclo di bassa congiuntura e quindi la linea economica su cui si basa il centro sinistra deve cambiare. La lentezza di decisioni dipese essenzialmente dal fatto che il PSI doveva accettare l’egemonia della DC e per questo occorrevano tempi lunghi. I tempi lunghi servivano anche al segretario della DC Aldo Moro, prima di tutto per rafforzare la sua posizione di segretario, poi utilizzò la scadenza del settennato di Gronchi ( primavera del ’62) per tenere in stallo e logorare il PSI. Gronchi mirava alla sua rielezione con il potente appoggio di Enrico Mattei, personaggio centrale nel sistema industriale italiano e internazionale. Fondatore dell’Eni. Un uomo che aveva una visione strategica delle sviluppo, ma famoso, perché teneva in pugno il sistema dei partiti. Storica la frase consegnata a un’intervista, disse che usava i partiti allo stesso modo di come usava i taxi, «salgo, pago la corsa, scendo». Gronchi, però, non avrebbe mai ottenuto i voti della sinistra per avere appoggiato il governo Tambroni. Allora fu messa in giro la voce che il presidente della repubblica avrebbe potuto sciogliere anticipatamente le camere nella speranza di ottenere un parlamento a lui favorevole. Progetto di difficile attuazione, in quanto la scadenza del mandato presidenziale era entrata nel semestre bianco e perciò non era possibile sciogliere la Camere. A Luglio il PRI tolse la fiducia al governo Fanfani, quello delle convergenze parallele, era durato esattamente un anno. Allora I dorotei chiesero e ottennero da Moro, in vista di un vero governo di centro sinistra l’elezione a presidente della Repubblica di Antonio Segni, e Moro promise a Fanfani che avrebbe guidato il futuro governo di centro sinistra. Con questa meticolosa preparazione il segretario Aldo Moro si presenta a gennaio del ’62 al Congresso di Napoli e apre al centro sinistra. La lista “Amici di Moro e Fanfani” ebbe l’80% dei voti.

Il ricompattamento della democrazia cristiana nel congresso di Napoli fonda le sue radici di analisi socio economica in un convegno che si svolse qualche mese prima a San Pellegrino, nel settembre del ’61. Due furono le relazioni che gettarono le basi culturali, si può dire le ragioni, dell’alleanza con il Psi. La prima fu quella del sociologo Achille Ardigò. Vale la pena citare alcune parti fondamentali della sua relazione: “Le analisi di sociologia elettorale ci dicono che il voto DC è stato ed è soprattutto voto rurale ed è un voto specie di coltivatori diretti; è un voto dei già stabilizzati ceti medi urbani. Per contro l’apporto di immigrazione non ci è spesso favorevole; e le roccaforti comuniste sono nei suburbi popolosi delle metropoli, nei quartieri vecchi e nuovi, attorno alle zone operai metropolitane. Ebbene se noi come DC non pensiamo di prendere atto di questo stato di cose, la conservazione dell’attuale linea industriale ci scalzerà sempre di più le basi sociali di consenso….Occorre allargarsi verso il nuovo. La nuova sintesi pena l’involuzione, ci impone anzitutto, come azione di partito , che si apra alla comprensione, alla penetrazione e alla guida politica dei nuovi ceti sociali, operai e medi….Tutto insieme il mondo cattolico ha da guardare alle nuove forze in cammino……Non possiamo, nelle attese di compenetrare da cattolici il nuovo movimento operaio, lasciare che lo Stato, il governo siano incapaci di cogliere la più alta sintesi richiesta. Di qui il problema dei rapporti politici con i socialisti.” (Convegno di s. Pellegrino, Atti del I Convegno Nazionale di Studio della Dc. Roma 1962 Pag. 140) La seconda relazione fu di Pasquale Saraceno che collega il concetto cattolico di bene comune alle moderne esigenze della pianificazione: “ i poteri pubblici responsabili del bene comune non possono non sentirsi impegnati a svolgere in campo economico, un’azione multiforme, più vasta , più organica, come pure adeguarsi a tale scopo nelle strutture, nelle competenze, nei mezzi e nei metodi”. (Ivi pag. 211) Dunque la Dc propone valori come piena occupazione, programmazione, Stato Sociale come se fossero ispirati dalla tradizione cattolica, dalla Chiesa. Il congresso di Napoli in sostanza comprende l’evoluzione della società industriale, capisce che è necessaria una politica socialdemocratica, ma questa deve soggiacere all’egemonia democristiana anche se è indispensabile la presenza socialista nel governo. Il congresso di Napoli della DC si svolge in un momento storico assai felice: il pontificato di Giovanni XXIII che supera le impostazioni conservatrici di Pio XII e favorisce quelle correnti della DC che intendono creare in Italia un blocco sociale stabile ad egemonia DC inglobando i settori popolari espressi dal PSI. In America c’è John Fitzgerald Kennedy che propugna la stessa linea politica. La crisi del movimento comunista internazionale rende cauto Togliatti nell’attaccare da sinistra i socialisti. E’ di questo periodo la crisi dei missili di Cuba. L’Unione Sovietica dovette ritirarli e poi esplose il conflitto tra URSS e Cina che si rifletteva sul movimento comunista internazionale. L’unica nota positiva per i comunisti italiani in quel periodo fu l’accoglienza in Vaticano del genero di Krusciov.